Pina Di Loreto, che pur non frequentandoci la sentiamo un’amica, è davvero una bella persona dentro e fuori. E’ semplice e complessa come solo le persone sensibili possono essere. In più è un’artista in vari campi, un’esperta di cucina e di conserve, di unguenti curativi, di saponi e di uncinetto, e di una miriade di altre arti e studi, ed è spiritosissima.
Ci siamo conosciuti parecchi anni fa sul web perché si era iscritta alla nostra prima mailinglist. Insieme abbiamo fatto un bel percorso di confronti personali e di Ho’oponopono ma non solo, inoltre abbiamo avuto il piacere di pubblicare alcuni suoi begli articoli sui nostri blog.
“Trasformazione finalmente liberi” il primo libro di Pina Di Loreto, Masciulli Edizioni, è molto particolare. E’ un racconto che diventa ben presto un viaggio impegnativo e coraggioso, sia per chi legge che per chi scrive, pur facendo anche sorridere e divertire.
“Trasformazione finalmente liberi” è comunque un viaggio di crescita non di piacere, un percorso che l’autrice, acuta e sensibile, riesce a dosare fino al limite, perché è proprio tutta quella sofferenza che scorre nelle pagine il trampolino con cui i personaggi di Pina accompagnano il lettore a fare il salto per uscirne definitivamente.
Finalmente liberi dalla sofferenza in un finale di luminosa e benedetta trasmutazione.
Questo libro parla di amore, di coraggio, di libertà, di diritto alla gioia, e conclude con la propria resa alla vita, quando le parole diventano gocce di rugiada che commuovono e puliscono. Questo libro è difficile da raccontare, è una profonda esperienza da provare.
Da piccola ero molto brava a materializzare i miei pensieri, come forse tutti noi. Mi piaceva leggere e anche scrivere e ho sempre creduto che un giorno avrei scritto un libro. Solo che, crescendo, ho mandato tutti i miei sogni a fare un giro e la disillusione ha preso il sopravvento, proprio come succede a molti di noi. Eppure, in qualche angolino recondito del mio cuore c’era ancora quel libro che aspettava di essere scritto. Mi dicevo sempre che mi sarebbe piaciuto scrivere però non avevo niente di interessante da raccontare e, ricordando la famosa frase di Baricco: “non sei fregato veramente finché hai una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”, pensavo di essere proprio fregata.
Scherzo.
E intanto leggevo libri tipo “Scrivere zen” di Natalie Goldberg, con tanto di esercizi, poi lasciavo passare anni durante i quali, comunque, leggevo molto, anche se poca narrativa, e scrivevo di tanto in tanto piccoli testi anche solo per me. Pochi anni fa, su suggerimento di un maestro a me molto caro, ho letto e praticato il libro di Julia Cameron “La via dell’artista”, che mi è stato molto utile. E più recentemente sono incappata nel libro “Diventa scrittore” di Dorothea Brande.
Ad ogni modo, la potenza creativa dei miei primi anni di vita si è mantenuta fino al punto in cui è stata la storia a venire da me per farsi raccontare. E ora vi dico come è andata. Naturalmente è una storia e magari è tutta inventata, non vi fidate della narratrice, fatevi solo trasportare dalla narrazione.
Un’amica con cui, fino a quel momento, avevo neanche troppa confidenza, mi confessò che avrebbe voluto raccontare la sua vita ma non sapeva come farlo. Le piaceva come scrivevo io, che sul mio profilo ogni tanto scrivo versi, versacci, haiku, induzioni ipnotiche, racconti divertenti, racconti seri (ahahahahahah) e cavolate a iosa e voleva che fossi io a raccontare la sua storia. L’idea mi piacque tantissimo fin dall’inizio, anche se non sapevo se sarei stata in grado di scriverla in una forma che poi potesse essere pubblicata. Cercai comunque di indurla a scriverla da sola perché nessuno avrebbe potuto farlo meglio di lei, invece lei insistette perché la scrivessi io, quindi decidemmo di incontrarci una volta a settimana per diverse ore, durante le quali lei mi raccontava la sua storia e io prendevo appunti. Senza impegno. Quelle pagine potevano anche restare per sempre sul quaderno, per comune accordo.
Ci vollero mesi e mesi di incontri, che a un certo punto volli interrompere perché sentivo che poteva bastare così.
Lasciai decantare quelle pagine per altri mesi.
Ogni tanto pensavo di rimetterci mano e di elaborare il tutto, solo che quando ci provavo mi veniva quella sensazione che mi assale quando l’armadio si rifiuta di fare spazio per un altro vestito e mi vomita addosso il suo contenuto fino a che non decido di buttare quello che non serve più. E mi sentivo pigra, incapace, disordinata, e non volevo neanche guardarli, quegli appunti.
Un giorno mi feci coraggio e affrontai il mostro.
Aprii il quaderno, feci in modo da snellire il testo fino all’osso e trascrissi sul pc quello che ne restava.
Lo feci decantare ancora. Quelle pagine intanto stavano lavorando dentro di me.
Iniziai a scrivere qualcosa, con l’estro che si autoalimentava e mi suggeriva, mano a mano, come rendere quel racconto qualcosa di interessante, coinvolgente, impattante e anche divertente, nonostante la drammaticità della storia.
Capii anche che preferivo raccontare il tutto senza rispettare un ordine cronologico, proprio come un vecchio farebbe coi nipotini davanti al caminetto, che una volta racconta di quando aveva cinque anni, poi di quando ne aveva trenta, poi di ieri, poi di quando ne aveva diciotto, utilizzando la tecnica narrativa del flashback.
Mentre guidavo (passavo ore alla guida tutti i giorni) pensavo a come rendere la storia più bella e decisi, anche con i suggerimenti di un amico scrittore, di inventare i nomi dei posti e delle città e la cosa mi divertì tantissimo.
Non volevo raccontare l’ennesima storia di violenza domestica, ce ne sono fin troppe e anche più drammatiche della mia. Volevo parlarne da un altro punto di vista, e cioè, la richiesta, da parte dei propri antenati, di essere liberati da questa compulsione e lo si può fare solo smettendo di agirla e perdonando, in un senso più ampio di quello comune, i propri aguzzini.
Credo non ci sia bisogno di farlo, comunque chiarisco che chi usa qualsiasi tipo di violenza deve essere messo in condizione di non nuocere. Tuttavia, guardando il tutto da un punto di vista più lontano e, se vogliamo, animico, si può vedere che chi usa violenza sta ripetendo uno schema genealogico e non ha abbastanza energia per interromperlo. Sta chiedendo implicitamente a chi dei discendenti ne abbia gli strumenti, di spezzarne la corda e di fare, come quando da bambini si giocava a nascondino, “tana libera tutti”.
E questo è il senso e lo scopo che ho voluto dare al mio libro.